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Giornalismo e testimonianza

Volevo iniziare la collaborazione con questo blog con un articolo, diciamo così, teorico, che serva anche come presentazione. Nei momenti informali del War Reporing Training Camp, e ancora di più nelle interazioni successive con i partecipanti che sono diventati amici, si è molto discusso di quello che è il ruolo e il mestiere del giornalista, la sua etica e la sua responsabilità.

Potrei dire che la questione non mi riguarda, perché non sono e non pretendo di essere un giornalista. Sono un volontario e ex dirigente di ONG, un antropologo africanista a cui piace il lavoro sul campo, un viaggiatore che preferisce il livello del suolo, un militante di varie cause. Me la cavo molto meglio come narratore che come fotografo, per cui i miei ricordi di viaggio preferisco affidarli alle parole piuttosto che alle immagini. Mi è quindi capitato spesso di scrivere le mie esperienze in qualche posto esotico, sperduto, sconosciuto o magari pericoloso di questo nostro mondo. In futuro qualcuna di queste vicende magari la racconterò anche su questo blog, quindi mi pareva necessaria una premessa: i miei non sono reportage, sono racconti di viaggio, al massimo testimonianze. Mi pare doveroso e interessante chiarire le diverse condizioni in cui questi testi prendono forma, le diverse motivazioni e scopi e anche la diversa postura dello scrittore.

Personalmente apprezzo moltissimo i giornalisti che usano ogni cautela per non essere loro la notizia, per letteralmente sparire dai loro lavori, mentre i miei racconti sono tutti in soggettiva. Scrivo in prima persona perché mi riesce meglio, perché, come chiarirò subito, mi pare più onesto e anche perché un goccio di narcisismo, come un bicchiere di buon vino, non bisogna farselo mancare, quando si può e non fa male a nessuno. Un’altra cosa importante sono le diverse motivazioni: le cose che scrivo non hanno lo scopo di fare informazione. Quando non sono semplicemente un modo simpatico di dare notizie di me a chi è rimasto a casa. servono a sollecitare fondi e simpatia per una causa o un progetto umanitario, sono insomma dichiaratamente di parte. Questo non significa che racconto cose false o che non cerco di essere obbiettivo e critico, ma ci sarà sempre un punto di vista privilegiato, quello che ho scelto in partenza, rispetto agli altri.

Una cosa che ha notevoli conseguenze sull’oggettività (che è una cosa diversa dall’obiettività) dei testi è il fatto che questi racconti non sono quasi mai lo scopo principale dei viaggi e delle missioni. A volte è difficile anche trovare il tempo di scriverli, figuriamoci di verificare professionalmente tutte le informazioni, riuscire a contestualizzare i fatti, approfondire criticamente quello che si è visto o sentito. Insomma fare il lavoro del buon reporter. Del resto, ripeto, non è il mio mestiere e non pretendo che lo sia. Ancora più importante è il fatto che per viaggiare o operare in certi contesti si è dipendenti dai collaboratori sul posto, che hanno le loro idee, le loro appartenenze, i loro legami e quindi fanno inevitabilmente da filtro tra noi e i nudi fatti. Quindi, come si dice anche in campo scientifico antropologico, i limiti e i bias dei propri lavori non vanno negati, i propri punti di vista, l’impegno attivo e la scelta di campo, non sono necessariamente da evitare, basta dichiararli onestamente e completamente, permettendo al lettore di “prendere le misure” a quello che legge. Spero che vi piaccia lo stesso.