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Il peggiore dei Mali

Mali, Segou, cacciatori Dozos – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

La decisione della Corte Costituzionale maliana, che ha ufficialmente nominato il plurigolpista colonnello Assimi Goita alla carica di Presidente del nuovo governo di transizione a seguito del recente colpo di stato, lascia pochi dubbi sulle reali possibilità delle istituzioni civili, espressione di una serie di giunte militari che si susseguono al potere senza soluzione di continuità, di operare liberamente e nel rispetto delle leggi del Paese.

Le minacciose sollecitazioni della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, volte a far nominare un civile alla carica di Presidente, non hanno sortito alcun effetto, né, d’altra parte, hanno sortito alcun effetto quelle ben più rabbiose, e foriere di conseguenze, del Presidente Macron.

L’espulsione formale del Mali da parte dell’ECOWAS e dell’Unione africana, confermate nonostante l’annunciata road map che dovrebbe condurre a una più rapida transizione verso un governo retto da civili, hanno un notevole valore simbolico, sottolineando, se ancora ce ne fosse bisogno, l’opportunità di un deciso cambio di rotta.

Ma il fragile stato africano, indipendentemente dalla composizione del prossimo governo, ha ben poche possibilità di resistere, intatto anche solo da un punto di vista formale, geografico, alla pressione combinata dei gruppi jihadisti, che sfruttano con estrema abilità la guerra intercomunitaria scatenata dalla scarsezza delle risorse, e al crescente potere dei wahabiti, i cui fedeli crescono in misura esponenziale anche nelle rare zone ancora sotto controllo governativo. “Abbiamo sempre praticato un islam sufi, capace di coabitare con gli animisti, i cristiani, abbiamo vissuto con loro in simbiosi, afferma l’Imam Mamadou Moussa Diallo, vice presidente dei capi spirituali musulmani in Mali.  “Ma da quando i wahabiti si sono installati in Mali, i problemi sono iniziati. Oggi il 25 per cento della popolazione è wahabita: in un paese povero come il nostro, manipolare le persone è molto facile. L’appello che lancio, alla comunità internazionale, è quello di sostenere con ogni mezzo la comunità islamica moderata, e di farlo subito. Adesso. O sarà la catastrofe”.

Mali, Bamako, fedeli in preghiera – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

Un appello, inutile dirlo, destinato con tutta probabilità a cadere nel vuoto, sebbene il sostegno agli Imam sufi, nella vicina Mauritania, abbia dato gli unici risultati finora positivi nella lotta al terrorismo islamico nel Sahel. Vale la pena soffermarsi sulle parole del Dottor Bréma Ely Dicko, ricercatore e capo dipartimento della facoltà di Sociologia e Antropologia dell’Università di Scienze Umane e Lettere di Bamako: “In Mali la situazione è abbastanza complessa, ma si può dire che tutto sia iniziato nel 2012. In quell’anno ci sono stati due avvenimenti importanti: il primo è il colpo di stato militare, a Bamako, che ha portato al rovesciamento del Presidente Touré. Nello stesso momento, un gruppo indipendentista, l’MNLA, il movimento di liberazione dell’Azawad, nella regione di Kidal, ha creato una connessione con due gruppi terroristi, all’epoca rappresentati da Al Qaeda per il Mahgreb Islamico, e il MUJAO, il Movimento per l’Unità della Jihad in Africa Occidentale. In tre giorni, l’MNLA, con i suoi alleati, ha occupato le regioni del nord, Timbouctu, Gao, Kidal, e il sei aprile 2012 ha dichiarato l’indipendenza dell’Azawad: due terzi del territorio del Mali. Quando questi gruppi ribelli sono avanzati verso Bamako, il Presidente della transizione ha chiesto il sostegno della Francia, in quanto antica potenza colonizzatrice. La Francia ha risposto inviando dei soldati che sono riusciti a fermare l’avanzata dei gruppi terroristi nel centro del Mali, a Konnà, e alcuni soldati francesi hanno purtroppo perso la vita.  

Dal 2012 a oggi la situazione non smette di diventare più complessa: più le forze straniere si moltiplicano in Mali, più l’insicurezza si estende a nuove aree.

Se nel 2012 l’insicurezza riguardava esclusivamente le regioni del nord, oggi, nel momento in cui vi parlo, è l’ottanta per cento del Paese a essere colpito, e se nel 2012 c’era un gruppo indipendentista alleato a due gruppi terroristi maggioritari, oggi c’è una molteplicità di gruppi terroristi che hanno spesso una connessione transnazionale. A questi bisogna ovviamente aggiungere i numerosi gruppi di autodifesa che sono emersi nelle regioni del nord e nelle regioni del centro. Tra questi, Dan Na Ammasagou, costituito soprattutto da cacciatori dogon, che sostengono di avere 2000 combattenti. Questi  gruppi di autodifesa sono nati in una logica di protezione delle persone e dei loro beni, per sopperire all’incapacità dello Stato di provvedere alla sicurezza dei propri cittadini. Purtroppo, ci sono sempre delle cellule non controllate che si rendono colpevoli di crimini, spesso impuniti perché le forze di sicurezza maliane stanno abbandonando le aree di maggiore insicurezza: i gendarmi, i guardiani delle foreste, i prefetti, i sottoprefetti hanno paura e scappano nelle grandi città.  Secondo un rapporto dell’UNICEF più di 1433 scuole sono state chiuse a causa dell’insicurezza e più di 800 insegnanti non hanno più una scuola in cui insegnare. Sempre a causa dell’insicurezza, ci sono oggi in Mali 361 mila sfollati interni e più di 138000 rifugiati maliani nei Paesi vicini, Mauritania, Burkina Faso e Niger.

Mali, Nanya Kenyeba, ex combattente di Dan Na Ambassagou – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

Ufficialmente, la zona rossa in Mali si estende ormai a 360 gradi tutt’intorno alla capitale. L’80 per cento del Paese è sotto il controllo di vari gruppi jihadisti riuniti in due cartelli principali e occasionalmente avversari: il GSIM (Groupe de Soutien à l’Islam et aux Musulmans), nato dalla fusione di vari gruppi qaedisti quali Ansar Dine, AQMI (Al Qaeda au Maghreb Islamique) e Katiba Macina, e l’EIGS (État Islamique dans le Gran Sahara) ufficialmente riconosciuto come gruppo affiliato allo Stato Islamico dal Califfo Abou Bakr al-Baghdadi nel 2016.

L’esercito francese, impegnato in Mali dal 2013 con l’operazione Serval, poi mutata in Barkhane, e gli uomini della Minusma, i caschi blu dell’Onu, barricati nelle loro basi, faticano a proteggere se stessi.

Nonostante i consueti proclami, dal 2012 a oggi il Paese ha perso porzioni sempre più cospicue del suo territorio.

Quel che è peggio, le istituzioni maliane hanno perso definitivamente l’appoggio della popolazione, abbandonata a se stessa, e ogni credibilità a livello internazionale. L’ultimo colpo di stato ha infatti indotto l’Eliseo a modificare l’assetto delle sue truppe, oltre 5000 uomini dispiegati nella regione del Sahel, impegnate in operazioni congiunte con le truppe locali.

Operazioni congiunte sospese all’indomani del colpo di stato, perché il sospetto che quel che resta delle istituzioni maliane, civili e militari, sia propenso a coinvolgere i gruppi jihadisti nella formazione di un nuovo governo o abbia nei confronti di dette formazioni un atteggiamento potenzialmente inclusivo, è forte. 

Probabilmente, il relativo disimpegno della Francia, che non ritirerà le truppe ma ne adatterà l’impiego sulla base di nuove evidenze strategiche, era un’opzione preesistente al golpe e legata alla strategia politica del Presidente Macron, interessato a smarcarsi dalla controversa Barkhane in vista delle prossime elezioni. Lo dimostrerebbero gli appelli agli alleati europei volti a un maggior coinvolgimento degli stessi nel teatro africano, e sfociati nel varo della Task Force Takuba, che raggruppa forze speciali di Paesi diversi, destinata a rappresentare la spina dorsale dell’impegno militare occidentale nel Sahel.

Stando a quanto riferito dall’Ufficio stampa dello Stato Maggiore della Difesa, il mandato e gli obiettivi del contingente italiano non hanno subito alcuna variazione a seguito dei recenti sviluppi. Restano comunque poche, e insolitamente vaghe, le informazioni rilasciate dallo Stato Maggiore della Difesa rispetto al dispiegamento del contingente italiano, incardinato nella Task Force Takuba, approvato il 16 luglio 2020 e divenuto operativo nelle ultime settimane di marzo.

Al momento continua l’afflusso di personale incaricato d’iniziali attività logistiche. Attività che prevedono, tra l’altro, l’impianto di una struttura infermieristica con capacità Role 1, ovvero destinata al trattamento d’emergenza di militari feriti e traumatizzati. Sorgerà a Menaka, nella pericolosissima zona detta delle tre frontiere, dove i confini tra Mali, Niger e Burkina Faso rappresentano nulla più che linee immaginarie tracciate nella sabbia del deserto. Il regno di una costellazione di milizie qaediste sempre più spesso in rotta di collisione con quelle del SIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), che controllano ormai gran parte della regione orientale del Paese. L’obiettivo della missione è di “assist, advise e accompany” a favore delle forze locali maliane.

In tale contesto, la partecipazione delle Forze Armate italiane si articolerà su assetti elicotteristici per il trasporto e l’evacuazione medica cui si aggiungeranno unità di addestratori in accompagnamento alle forze locali, che opereranno di concerto con i contingenti degli altri partner internazionali e della forza congiunta dei G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso).

Che tra i compiti della Task Force Takuba, di cui fanno parte anche reparti speciali di altri paesi europei, vi sia non solo quello di addestrare e supportare, ma anche di “accompagnare” in combattimento le forze maliane, è qualcosa di più di una semplice ipotesi, avvalorata dalla destinazione, particolarmente sensibile, del contingente italiano:  proprio nella zona di Manaka, a inizio febbraio, hanno perso la vita, nel corso di un’operazione, altri due soldati francesi, uccisi da uno IED.

Mali, Katy, vedova di un soldato maliano – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/Six Degrees

A far da bersaglio alle milizie islamiste, ben armate e addestrate, rese potentissime dal traffico di stupefacenti che attraverso il Sahel giungono in Europa, sono rimasti rari avamposti delle Fama (Forze armate Mali). In media, stando ai risultati di una recente inchiesta condotta sul campo da reporter francesi e diffusa da Arté, a causa della corruzione imperante tra gli alti gradi dell’esercito, i soldati maliani dispongono di un’arma funzionante ogni sette uomini, con circa 60 munizioni. Una capacità di fuoco automatico che si aggira intorno ai 10 secondi. I loro corpi, come abbiamo potuto constatare, raramente possono essere restituiti alle famiglie, che vengono informate della morte dei loro congiunti solo quando il numero dei caduti supera le dieci unità in un unico scontro a fuoco.

Narcojihad. Risiederebbe in questa controversa definizione una delle chiavi del successo, economico e quindi militare, dei cartelli qaedisti che operano nella zona nord occidentale del Paese, oggi raggruppati nel GSIM (Gruppo di Sostegno all’Islam et ai Mussulmani), nato dalla fusione di vari gruppi qaedisti quali Ansar Dine, AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e Katiba Macina.

Dalle coste venezuelane salpano ogni anno centinaia di tonnellate di cocaina destinate al mercato europeo, più vantaggioso di quello nordamericano perché, al dettaglio, lo stupefacente viene ceduto al doppio del prezzo. Le coste dell’Africa Occidentale, e particolarmente della Guinea Conakry e della Guinea Bissau, offrono un approdo ideale per i grandi carichi di cocaina: scarsissimi controlli, altissima permeabilità delle istituzioni. La pressoché illimitata capacità corruttiva dei cartelli narcos fa il resto.

Dopo aver attraversato l’Atlantico, la cocaina inizia un lunghissimo e avventuroso viaggio attraverso gli incandescenti, ostili deserti saheliani, fino alle coste marocchine, algerine e tunisine, da dove parte per raggiungere il vecchio continente. “Nel deserto, le strade sono ovunque. Ma alcune sono più sicure di altre”, ha dichiarato, nel corso di un’intervista, un ufficiale dell’esercito maliano. Ed è qui che entrano in gioco i gruppi jihadisti. Secondo Antonio Maria Costa, ex direttore esecutivo dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), “I gruppi terroristi nel Sahel ricavano risorse significative dal traffico di droga, utili a finanziare le loro operazioni, acquistare equipaggiamenti e pagare le milizie”.

Il grado di coinvolgimento dei vari gruppi è, però, difforme. Per quanto tutte le formazioni jihadiste nel nord del Mali abbiano stretto, sin da subito, importanti relazioni con i trafficanti, solo in rari casi si sono fuse con essi, dando vita a un cartello che meriti la definizione di “narcojihadista”. Più frequentemente, come confermato dal rapporto “Drug Trafficking, Violence and Politics in Northern Mali” dell’International Crisis Group, i proventi legati al traffico di droga sono riconducibili alla riscossione di tasse o alla fornitura di scorte armate, generi alimentari, supporto logistico alle tribù arabe – come i Lamhar nella regione di Gao, o i Berabiche a Timbuktu e Taoudénit – notoriamente implicate in questa attività. Quel che è certo, è che il traffico di stupefacenti rappresenta un enorme introito per le formazioni estremiste, cui si deve aggiungere la lucrosa pratica dei sequestri di persona e la riscossione delle tasse nelle zone sotto il loro controllo.

Intanto, gli attacchi degli Jihadisti si moltiplicano in tutta la regione, con il rischio di estendersi anche ai pochi Paesi finora risparmiati, compresi il Senegal, che si era, fino ad ora, considerato al riparo in virtù della combattività del suo esercito e del controllo esercitato dalle confraternite religiose, e la costa d’Avorio.

Mali, sponde del fiume Niger – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

Ma il dilagare di gruppi fondamentalisti non è che un effetto collaterale. Per comprendere le vere ragioni di questo conflitto, è necessario guardare altrove. Ovvero, alla crisi climatica e alle sue ricadute sulla capacità produttiva del Paese. Secondo uno studio prodotto dall’HNRO (Overview of Humanitarian Needs and Requirements) nel 2020, il Sahel è il luogo del pianeta dove le temperature stanno aumentando 1,5 volte più velocemente che nel resto del mondo, nonostante la regione produca bassissimi livelli di gas serra.

Ciò provoca fenomeni metereologici estremi, devastanti alluvioni alternati a periodi di siccità che pongono quasi sette milioni di persone, su una popolazione totale di 18, in condizioni di dipendenza dall’assistenza umanitaria (dati UNHCR).  Mori Diallo, responsabile dell’ufficio di Mopti e Sevaré di Wetlands international, non ha dubbi: “Lo stato di salute delle aree umide, concentrate lungo le sponde del delta interno del Niger, ha una ricaduta immediata sulla sicurezza del Paese. Perché è qui che si concentrano attività come la pastorizia, l’allevamento e la pesca, ovvero i tre settori produttivi dell’economia maliana, un tempo sostanzialmente complementari.  La desertificazione in corso, aggravata  dall’aumento delle temperature, ha provocato una graduale contrazione delle terre fertili disponibili, costringendo gli agricoltori Bambara e Dogon a una competizione inedita e mortale con gli allevatori Peul”.

Secondo il Professor Dicko, l’assenza dello Stato, e soprattutto l’inadeguatezza del suo sistema giudiziario, unitamente alla carestia incombente, hanno spinto gran parte degli allevatori Peul a confluire nei gruppi jihadisti per potersi misurare militarmente con i Dogon e i Bambara, che hanno invece risvegliato i tradizionali gruppi di autodifesa, costituiti dai cacciatori Dozos.

Ad aggravare ulteriormente un quadro già complesso, si aggiunge la corruzione dilagante che caratterizza la classe dirigente maliana.

Massa Koné è il volto carismatico di un’associazione, l’UCADDDD (Union des Associations et Coordinantions d’Associations pour le Développementet la Défence des Droits des Démunis), che rappresenta circa tre milioni di persone, molte delle quali colpite dall’accaparramento delle terre. Un fenomeno che in Mali raggiunge dimensioni inedite, interessando milioni di ettari di terre coltivabili, già ridotte dalla crisi climatica.

Mali, Katy, Massa Koné con i contadini vittime di land grabbing – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

“Quando lo Stato, invece di proteggerti, ti spoglia della terra che coltivi, e ti riduce in miseria, è facile essere manipolato, ingannato, ascoltare chi ti dice prendi questo fucile, lo Stato è stato complice dell’accaparramento delle vostre terre, del vostro oro, delle vostre risorse, andiamo a riprendercele. È questo, la guerra nel centro del Paese. È così che molti uomini si uniscono agli jihadisti, o ai gruppi di autodifesa. Fino a quando le pance resteranno vuote, non tornerà la pace in Mali”.

Il caso di Sanamandougou, un villaggio a circa ottanta chilometri a nord di Segou, è paradigmatico: un caso di accaparramento di terre che vede coinvolti il Governo maliano, la Banque d’Afrique, l’impresa 3 AO, ex JDCM, colosso dell’agroalimentare, e il tristemente noto Office du Niger – creato in epoca coloniale e ancora attivo. I contadini che coltivavano quella terra non sono mai stati coinvolti nelle trattative, e le proteste sono state duramente represse dai gendarmi: il capo villaggio è stato picchiato selvaggiamente e incarcerato per oltre due mesi.

Diverse persone hanno perso la vita a causa delle percosse subite nel momento in cui hanno chiesto all’attore economico di non privarli delle terre da cui dipendeva la loro intera esistenza.

Mali, Katy – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

Significativa la testimonianza di una delle donne coinvolte in quegli eventi: Quando i gendarmi hanno iniziato a picchiare gli uomini che chiedevano di non privare la comunità di quelle terre, noi donne li abbiamo raggiunti, perché abbiamo pensato che se volevano uccidere i nostri figli, mariti, fratelli, allora dovevano uccidere anche noi.  Allora una colonna di gendarmi ci ha assalite, circondandoci e bastonandoci. Io sono stata picchiata da cinque gendarmi, ero incinta e sono stata percossa molto violentemente e a lungo sul ventre. Per tutta la notte i gendarmi hanno pattugliato il villaggio, nessuno poteva uscire. Il secondo giorno ho iniziato a sanguinare e ho supplicato mio marito di andare a cercare un medico anche se uscire era molto pericoloso. Il sanguinamento è proseguito fino all’aborto.

Oggi Sanamandougou, un tempo florido al punto d’essere stato in grado di consegnare al governo settanta tonnellate di miglio per far fronte alla carestia, è un villaggio fantasma. Inquinati i pozzi, inquinate l’aria e la terra a causa dei chimici utilizzati dall’attore economico nei 680 ettari messi a coltivazione. Circondato da milizie jihadiste e banditi, non è mai stato messo in sicurezza dall’esercito maliano: a combattere per proteggere la comunità sono rimasti solo i Dozos, che pattugliano ogni notte i confini del villaggio dalle 20:00 alle sei del mattino.

Ma lottare contro l’accaparramento delle terre, in Mali, ha un prezzo. Oltre 10 attivisti dell’Associazione UCADDDD sono stati uccisi in questi anni, vittime silenziose di una tragedia spesso dimenticata. Nel  giugno 2020 sei uomini armati e incappucciati irrompono a casa di Massa Koné, minacciano la moglie, i figli, intimando loro di dire dove si trova. Se la cavano per un soffio. Ma le intimidazioni, le minacce, sono all’ordine del giorno.

Mali, Bamako, Massa Koné – Febbraio 2021 – Ugo Lucio Borga/SixDegrees

Dico che la lotta è una questione di intenzione, della filosofia che hai abbracciato su questa terra. E ti dico negli occhi la verità: non penso che arriverò a cinquant’anni. A volte ci penso. Chissà se sopravvivo fino alla fine di quest’anno. Possono avvelenarti. Devi pensare che non invecchierai molto. È la prima cosa. Devi essere convinto che ti possono ammazzare. Ma quello che ti spinge ad andare avanti sono le piccole vittorie. Vedi, in Mali ci sono ventimila contadini che coltivano la loro terra grazie alla nostra lotta. Questa è una vittoria. E mi chiedo: se non fossimo stati qui, che cosa sarebbe successo. Guarda Bamako. Le zone di nuove ricollocazioni in tutti i quartieri. L’unione delle nostre associazioni ha ottenuto la ricollocazione per oltre 10.000 persone, che oggi hanno un piccolo tetto sotto cui dormire. E ti dici – è questo che ci spinge ad andare avanti – e ti dici: e se non fossi stato lì?.

Considerando le cause profonde del conflitto in corso, che sono riconducibili al progressivo impoverimento del Paese determinato da fattori ambientali, dalla monumentale corruzione della sua classe dirigente, da interessi economici stranieri e dalla conseguente miseria in cui è sprofondata la popolazione maliana, è del tutto evidente che l’opzione militare sia non solo inadeguata, ma controproducente.

L’Europa continua a fingere, in questo e altri contesti, di non riconoscere la malattia, limitandosi a tentare inutilmente di alleviarne i sintomi, perché una diagnosi corretta la costringerebbe a mettere in discussione le sue politiche economiche e ambientali.

Nessun accordo di pace tra i vari gruppi armati, siglato finora, ha retto per più di qualche giorno, perché questa guerra non è innescata da questioni religiose o etniche, ma dalla fame.

La stessa fame che sta determinando il progressivo abbandono, da parte dei maliani, di un Islam sufico, tollerante e moderato, in favore dell’Islam wahabita d’importazione, finanziato dai Paesi del Golfo, il solo ad aver compreso che questa partita si gioca su un unico tavolo: quello della miseria.


* Questo reportage è stato realizzato in Mali nel mese di febbraio 2021 dalle Associazioni Six Degrees/FADA/Kaadar. Giornalisti: Ugo Lucio Borga, Davide Lemmi e Marco Simoncelli.

Parti di esso sono state pubblicate dalle seguenti testate: Spazio Pubblico, Millennium, Jesus, Radio Laser RSI, Life Gate, DW.