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Kabul e i fantasmi di Rastello

Chissà cosa penserebbe lui in questa situazione.

Me lo sto chiedendo da quando ho tra le mani il nuovo libro edito Chiarelettere sugli articoli e i reportage scritti tra il 1986 e il 2015 da Luca Rastello, giornalista torinese scomparso sei anni fa. Chissà cosa penserebbe della situazione sanitaria, del referendum sull’eutanasia, della richiesta insistente di libertà e diritti civili in un Paese come il nostro, che doveva essere democratico e invece si è perso sotto i rivoli della paura.

Mi chiedo cosa penserebbe della situazione a Kabul oggi, quella città che prometteva opportunità ai profughi che venivano da fuori. Vietato esistere in Afghanistan, lo scriveva già nel settembre 2002 per D di Repubblica, quella città dilaniata a ovest per la cacciata dei sovietici negli anni Novanta. Quando ne scrisse, a Kabul c’era ancora Hamid Karzai, lo stesso che, ora che il presidente Ashraf Ghani è fuggito dal paese, si candida a mediatore con i talebani che hanno rifondato l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Lo hanno fatto rinascere dalle macerie americane ma dicono che, a dispetto delle centinaia di persone in fuga o già ferite e uccise, sarà un governo aperto e inclusivo.

Chissà se anche lui vedrebbe in questa cosiddetta transizione pacifica un ossimoro. Se udirebbe stridere chi tenta di semplificare l’analisi geopolitica indicando il capro espiatorio nell’attentato alle Torri Gemelle. Perché se scorriamo le lancette della storia capiamo invece che è una tragedia annunciata. Rastello nel 2002 scriveva: “Quando esplode un’autobomba vicino a un mercato il traffico non si ferma, solo i giornalisti si accalcano intorno alla scena della strage, gli altri scansano e vanno avanti. E sono fantasmi i guerrieri di al Qaeda nascosti in qualche buco delle montagne bianche, (…) di quella guerra non si conoscono i risultati, le vittime, l’intensità, la durata: da qualche parte qualcuno muore”. Qualche giorno prima, sempre su Repubblica, aveva raccontato dell’attentato a Karzai, in cui era rimasto illeso ma in cui sembrava evidente la mano della cellula di al Qaeda per provocare una strage di civili.

Non vorrei esaurire tutti i suoi argomenti alle guerre mediorientali, perché egli si occupò anche di reportage di viaggio, di narcotraffico (non a caso diresse Narcomafie), della guerra nell’ex Jugoslavia. Poi in Italia della sua Torino, della Tav e dei migranti (ricordiamo il libro La frontiera addosso, ed. Laterza 2010).  

Non vorrei ricordarlo solo per quel suo sguardo tagliente che penetrava con le parole i fatti per non lasciare nulla al caso, nulla di intentato: grande la perdita che il giornalismo ha sofferto per la sua scomparsa, quella di un osservatore di imperitura memoria.

Non vorrei, eppure è così singolare leggere oggi di un futuro che lui non ha potuto assistere ma il cui epilogo forse, come si intuisce dai suoi scritti, avrebbe facilmente immaginato.

Qual è la novità di vedere gli occidentali, gli allora colonizzatori, usurpatori di territori? Fin da Colombo avevano sempre ritenuto inferiori i popoli delle regioni che andavano ad occupare. Tutte le frontiere pian piano furono cancellate e tradotte, l’imperativo era di portar loro la civiltà o altrimenti sarebbero stati (s)oppressi: persone contro altre persone, angeli senza ali, denti senza fame. Anche il sociologo Alessandro Dal Lago parlerà di questa “inferiorità culturale degli altri” sinonimo della “politica occidentale sul resto del mondo”.

Da una parte gli Stati Uniti erano diventati potenza mondiale nel secondo dopoguerra, avevano dimostrato di valere sul campo con la guerra fredda e con il sostegno a Israele, ma non erano i soli, dall’altra parte c’era anche l’Unione Sovietica che proteggeva l’Egitto di Nasser. In Egitto già negli anni Venti Hasan al-Banna aveva dato vita al gruppo tradizionalista e nazionalista dei Fratelli Musulmani, il quale applica integralmente i precetti coranici distorcendo nella realtà i veri valori di uguaglianza e di democrazia del Profeta.

Tra micro conflitti interni e richieste di indipendenza, nel 1979 l’Iran di Khomeini, ad esempio, rovesciò la monarchia dell’imperatore Pahlavi proclamando una linea anti-occidentale e anti-americana, proprio contro quella stessa potenza che voleva impadronirsi delle risorse petrolifere e creare così un circolo di dipendenza tra stati. Dieci anni dopo fu la volta della prima Intifada, la rivolta dei palestinesi contro Israele. Come se non bastasse durante la prima guerra del Golfo Saddam Hussein dall’Iraq avanzò nel Kuwait appoggiato da Arafat contro Egitto, Siria e alcune potenze occidentali tra cui gli Usa. Nel ’92 Clinton risponse all’attacco con la cosiddetta politica del doppio contenimento, volta a neutralizzare contemporaneamente sia Iraq sia Iran. Neanche Teheran riconosceva lo Stato ebraico eppure, come scrive Lilli Gruber in Chador [cfr. 2005], accettarono di comprare armi dagli americani con l’intermediazione degli israeliani: Reagan all’epoca pensò fosse una buona idea per liberare alcuni ostaggi americani in Libano.

Peccato che, cito, “parte dei profitti di quelle vendite fu utilizzata per finanziare i Contras, i gruppi anti-sandinisti in Nicaragua. Fu lo scandalo Iran-Contras a far vacillare seriamente la poltrone di Reagan e dimostrare il cinismo di Washington che sosteneva nello stesso periodo Saddam Hussein”. E mi fermo qui.

Una tragedia annunciata, appunto, di fantasmi contro altri fantasmi. Li chiamava così Rastello in quell’articolo del 2002 e poi, fino al 2015 anno della sua morte, ne ha continuato a parlare ovunque andasse, dava voce a quei fantasmi in cerca di dignità e destino e, almeno sulla carta, li trasformava in persone. Gli restituiva la vita.

Luca Rastello, Uno sguardo tagliente. Articoli e reportage 1986-2015, ed. Chiarelettere 2021, pp. 420, 18€