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Larry Burrows: la guerra e il dolore degli altri

Spesso mi domando se ho il diritto di approfittare del dolore degli altri. Ma quando cerco una giustificazione mi dico che se posso contribuire anche in minima parte alla comprensione di quello che gli altri stanno vivendo, allora c’è una ragione per farlo.

Con queste parole il fotoreporter di guerra Larry Burrows ci conduce dritti nel cuore di un tema assai delicato e mai risolto fino in fondo che attraversa, e spesso lacera, l’etica di un fotografo di guerra. Larry Burrows (Londra, 1926 – Laos, 1971) a 16 anni lavora nell’ufficio londinese di Life come assistente allo sviluppo e tecnico di laboratorio. Qui, una vulgata mai verificata, lo vuole responsabile della distruzione dei rullini delle fotografie che Robert Capa aveva scattato durante lo sbarco in Normandia delle truppe alleate. Degli scatti di quella carneficina si salvarono solo undici immagini, the magnificent eleven, come furono chiamate quelle fotografie “leggermente fuori fuoco”. In quelle circostanze, ogni ragazzo intraprendente avrebbe sognato un futuro di corrispondente di guerra.

1961, il Vietnam

L’occasione di diventare un fotografo professionista arriva nel 1961 quando, assunto da Life si trasferisce a Hong Kong, una base perfetta per coprire le temperie del sud-est asiatico. L’anno successivo, nel pieno dell’impegno statunitense nel conflitto, Larry Burrows viene inviato in Vietnam: da quel momento quella guerra sarà la sua guerra. Agli inizi degli anni ’60 per l’opinione pubblica americana il Vietnam era un paese più lontano della Luna dove, per ragioni incomprensibili, era in atto una guerra in cui gli americani erano presenti ufficialmente in qualità di consiglieri militari di una delle parti in campo. Niente di più. Si dice che la prima vittima di ogni guerra è la verità e infatti dal Vietnam giungevano poche e rassicuranti notizie riguardanti il ruolo e, soprattutto la durata dell’impegno.

Lo shock della guerra

Il clima fu interrotto da un servizio di Life. All’interno, annunciate dalla copertina, scorrevano una dozzina di fotografie che mostravano scene di guerra di una crudezza mai vista prima, quasi tutte a colori e tecnicamente perfette: il sangue mostrava al mondo il suo colore. In quel reportage si mostravano contadini fatti prigionieri trasportati sotto la minaccia delle armi, un campo coperto di cadaveri di guerriglieri, i resti di un villaggio contadino incendiato dopo i bombardamenti con il Napalm; e tutto davanti agli occhi dei cosiddetti osservatori americani. Per l’opinione pubblica americana fu uno shock.

L’uso del colore, una novità

Il colore, la vera novità di quel tempo, contribuì ad accentuare la drammaticità delle immagini. A differenza dei suoi colleghi che lavoravano per le grandi agenzie di stampa o per i quotidiani, Burrows non aveva scadenze prefissate, poteva prendersi tutto il tempo necessario per completare una storia. Per realizzare il reportage a colori, che Life pubblica nel 1963, impiega sei mesi. Larry Burrows aveva partecipato a ben cinquanta missioni prima di considerare completa quella storia, la prima pubblicata negli Stati Uniti ad avere un simile impatto, e la prima che rivelò il coinvolgimento diretto dei soldati americani nelle operazioni di guerra.

La guerra entra in salotto

La guerra in Vietnam era entrata nelle living room delle case americane. Larry Burrows aveva saputo cogliere la brutalità della guerra in immagini potenti e tecnicamente ineccepibili, stabilendo un modello col quale ogni reporter dovette da allora in poi confrontarsi. La guerra era così in Vietnam: sporca, fangosa, sanguinante. Così come l’ha mostrata agli americani Larry Burrows sulle pagine a colori di Life. A quel tempo non c’era censura per i giornalisti e i fotografi potevano seguire i combattimenti delle truppe, e mostrare al mondo la loro sofferenza oltre che il loro eroismo.

A braccia tese

Reaching Out”, a braccia tese, come recita la didascalia voluta dal fotografo, è la quintessenza della forza delle immagini che cambiarono l’opinione sul coinvolgimento in Vietnam. La forza di “Reaching Out” sgomenta ancora oggi. Life la ritenne sconvolgente e pur pubblicando le altre foto scattate durante lo stesso incarico, nell’ottobre del 1966, non la editò. Solo cinque anni dopo la foto fu pubblicata, nel febbraio del 1971, a seguito di un articolo che commemorava Burrows, ucciso in quel mese in un incidente in elicottero sul cielo del Laos. Da quel momento non potevano esserci più bugie. Può però la fotografia avere il potere di incidere su un evento bellico fino a decretarne l’inizio della fine? Ha scritto Susan Sontag: «Le fotografie a colori dei tormentati villaggi vietnamiti e dei soldati americani feriti o uccisi scattate da Larry Burrows e pubblicate da Life a partire dal 1962, hanno incredibilmente fortificato l’urlo di protesta contro la guerra in Vietnam».

Il fronte interno delle proteste

L’America, da quel momento in avanti, avrebbe dovuto conoscere e affrontare il “fronte interno” della protesta, una voce che avrebbe costretto il governo americano a ritirarsi dalla guerra. Larry Burrows non vide mai un Vietnam pacificato, non vide mai il ritiro delle truppe americane. Lui non seppe mai che le sue fotografie avevano fortemente contribuito alla fine delle ostilità. Tutto questo lo sappiamo noi grazie al suo ultimo reportage. Ha scritto Ralp Graves nell’editoriale di presentazione: «Per nove anni aveva coperto la guerra del Vietnam in condizioni di incredibile pericolo. Noi continuavamo a pensare per lui altre storie, più sicure. Lui le realizzava, ma poi tornava alla guerra. Come era solito dire, la guerra era la sua storia, e voleva vederne la fine. Il suo sogno era restare per poter fotografare un Vietnam in pace». Il suo straordinario coraggio fu premiato nel 1971 con la terza Robert Capa Gold Medal della sua carriera. Anche quando se ne allontanerà per altri incarichi, tornerà sempre, determinato a documentare il conflitto, la guerra e il dolore degli altri, fino alla sua conclusione.

1971 a Calcutta

Così avviene anche nel 1971. Si trova a Calcutta per un servizio sulla povertà e su Madre Teresa quando lo raggiunge la notizia che il Vietnam del sud sta per sferrare l’attacco decisivo al Laos. Torna in Vietnam per raggiungere il fronte, ma l’elicottero sul quale si era imbarcato insieme ad altri colleghi viene abbattuto sul confine con il Laos. Quel giorno muore uno dei più grandi fotogiornalisti del mondo, un modernista, un fotografo che ritraeva l’esplicito dimenticando l’estetica. Bellezza, stupore, meraviglia non erano tra le sue intenzioni: lui, Burrows, considerava la guerra un problema non la soluzione e ne voleva esporre gli inarrivabili orrori, confidando sul potere del mezzo tecnico a disposizione. Prima della fotografia tali immagini non erano possibili: la scrittura e l’arte erano i soli mezzi conosciuti per comunicare idee, scoperte, eventi. Con l’invenzione della fotografia tutto cambia, il mondo si restringe. Di questo passaggio epocale, Burrows è stato testimone e artefice attivo, un militante della fotografia di guerra.

Il dilemma: testimoni del dolore altrui

Non sapremo mai se con il tempo sarebbe venuto a patti col dilemma straziante della “testimonianza del dolore”. Altri suoi colleghi sì. W. Eugene Smith disse d’essere così trasformato dal dolore che rinunciò al reportage e quando riprese a fotografare realizzò A walk to Paradise Garden, a simboleggiare la rinascita personale insieme alla speranza in un mondo migliore, ma fu anche l’ammissione dell’impotenza delle immagini di incidere sulla Storia. Non sappiamo se Larry Burrows avrebbe ripetuto la scelta del suo celebre collega, le sue fotografie avevano un fine ultimo, informare l’opinione pubblica più che si poteva. Life era la sua casa e le sue fotografie hanno sicuramente influito ad accelerare la fine del conflitto vietnamita: quando la fotografia diventa strumento è un’arma potentissima.

Oggi i resti di Larry Burrows sono custoditi in una scatola di acciaio sotto il pavimento del Newseum, a Washington, D.C. Accanto a lui riposano i colleghi che persero la vita nell’incidente in elicottero.  

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