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Le vittime di mafia e i loro diritti sospesi

In giurisprudenza il diritto è l’insieme delle norme giuridiche che regolano una disciplina.

Per alcuni, l’anello di congiunzione tra morale e politica, per altri preesistente alla cittadinanza.

Oggi è diventato, però, lo spartiacque tra ragione dello Stato e della collettività rispetto all’individuo.

In senso soggettivo, se ho un diritto questo dovrebbe essere tutelato dalla legge che si deve adoperare affinché non vi siano intromissioni esterne: il mio diritto, ad esempio, alla vita o al lavoro deve resistere nonostante le difficoltà sociali o economiche del momento.

Il mio diritto non dovrebbe prendersi una pausa.

Nella realtà scopriamo amaramente che non è così.

Nel novembre del 2017 durante gli Stati Generali della Lotta alle mafie si proposero idee e obiettivi e nel tavolo di discussione numero 7 dedicato alle vittime, per spiegare perché lo fossero, si leggeva questa definizione riportata ora sul sito del Ministero di Giustizia: “Le vittime di mafia sono tali perché difendono diritti e valori costituzionali, dal lavoro alla libertà di voto e di espressione, dalla salute alla sicurezza”.

Ora è chiaro che per vittime non si intendono solo quelle morte ammazzate, ma anche, dopo che le mafie dagli anni delle stragi si sono infiltrate nel tessuto socio-politico ed economico del paese sparando di meno ma facendo più danni, le vittime che sono vive e ancora respirano pur essendo soggette a intimidazioni, estorsioni, violenze ed esposte alla più meschina omertà e isolamento.

È per queste vittime che troppo spesso il diritto di cui lo Stato dovrebbe prendersi cura viene dimenticato, non esiste.

Mi riferisco oggi in particolare alla storia di Daniele Ventura, di cui avevo scritto a più riprese su Articolo21 e che aspetta ancora che i suoi diritti vengano riconosciuti.

Daniele è un giovane che nasce a Palermo nel quartiere Brancaccio, dove nel ’93 i fratelli Graviano uccisero Don Pino Puglisi.

Nonostante il quartiere sia trappola per delinquenti minori e criminali incalliti, Daniele e i suoi fratelli vivono nella legalità grazie a una famiglia modesta che gli trasmette ideali di lealtà e giustizia.

Nel 2010, dopo gli studi in ragioneria, decide di aprire un bar, il New Paradise, tra il porto di Palermo e il Teatro Politeama.

Un sogno che si realizza, almeno in un primo momento.

Un giorno però alcuni uomini vengono a chiedergli il pizzo, quel compenso illegittimo che si trova a metà tra intimidazione e protezione. Dopo un attimo di paura, per sé e per la sua famiglia, insieme a un cugino, anche lui stanco di subire, decidono di denunciare.

Tra i volti riconosciuti dalle fotografie, che gli inquirenti gli fanno vedere, c’è quello di Francesco Chiarello, che avrebbe cominciato a collaborare con la giustizia tre anni dopo, uno di quelli che avrebbe fatto scoprire particolari interessanti sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. Sempre lui avrebbe fornito alle forze dell’ordine il libro mastro con i nomi di chi pagava il pizzo.

Daniele riconosce anche il volto del boss di Porta Nuova Gaspare Parisi e il giovane volto di Nunzio La Torre, all’epoca poco più che ventenne.

La denuncia di Daniele, insieme a quella di altri imprenditori, culmina nel 2011 nell’operazione “Hybris”, messa a punto dai carabinieri del Comando Provinciale di Palermo insieme alla Dda, che portò all’arresto di 35 persone per associazione mafiosa finalizzata alle estorsioni, alle rapine e al traffico di droga. 

L’operazione permette di disarticolare i mandamenti di Pagliarelli e Porta Nuova. Tuttavia, costringe Daniele a chiudere la sua attività: la gente, infatti, invece di supportarlo in quella pericolosa decisione lo abbandona con crudeltà.

Dopo i problemi economici causati dalla chiusura del bar e il processo in tribunale, Gianluca Maria Calì, altro imprenditore antiracket, gli viene incontro offrendogli un lavoro.

Ma gli avvertimenti e le minacce non si arrestano, anche perché Calì apre la sua autorimessa in un bene confiscato alla mafia e non nasconde il suo disprezzo per Cosa nostra.

Daniele comunque non si arrende, lo fa per sé stesso ma anche per suo figlio. E per Falcone e Borsellino: anche se aveva otto anni all’epoca li ricorda saltare in aria come fosse ieri.

Scrive un libro (“Cosa nostra non è cosa mia” edito La Zisa) e la sua storia finisce in teatro grazie al regista Francesco Lambri.

Nel 2015 finalmente arriva la sentenza che vede Daniele parte civile insieme al comitato AddioPizzo Palermo, alla Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane e all’Associazione Libero Futuro.

La Corte di Appello di Palermo riconosce il reato e l’appartenenza all’associazione mafiosa dei suoi aguzzini, e ritiene quindi Daniele una vittima.

È solo una conferma: già in primo grado non c’erano stati dubbi al riguardo. Infatti Daniele, nel 2013, aveva potuto fare richiesta di accesso al fondo di solidarietà per le vittime di reati estorsivi e di tipo mafioso disciplinato con legge n.10 del 26/2/2011 di conversione del D.L. 29/12/2010 n. 225 (art. 2, comma 6 sexies) e gestito dal Consap per conto del Ministero dell’Interno.

Spera di poter tirare un sospiro di sollievo, nonostante debba rimboccarsi le maniche per far fronte alle numerose difficoltà, invece la pratica per un cavillo si ferma per poi sbloccarsi solo dopo il servizio di Stefania Petyx, che nel 2017 gli dà ampio spazio su Striscia la Notizia.

Poi, circa due anni fa, Daniele decide di far istanza di danno esistenziale e biologico, configurabile nelle pressioni e nelle minacce ricevute come reato cosiddetto non patrimoniale e risarcibile secondo l’articolo 2059 del Codice Civile, in riferimento normativo all’art. 32 della Costituzione.

Ma anche questa volta c’è un problema.

Nonostante lui superi con una certa evidenza l’iter burocratico fatto di visite mediche all’ospedale miliare che deve certificare il danno, mi dice che, a oggi,  non ha ricevuto ancora nessun riscontro e che da un anno la Prefettura di Palermo non risponde alle sue richieste.

Si sente abbandonato, di nuovo.

Ecco, è proprio sullo Stato che abbandona le donne e gli uomini che denunciano il malaffare che vorrei porre l’accento e una serie di domande.

Il governo, la cui campagna di comunicazione e di sensibilizzazione su questa materia, a vedere il sito dedicato, sembra fin troppo fiducioso che i cittadini in pericolo scelgano di esporsi. Com’è possibile che, a conti fatti, risulti poi tutelare maggiormente chi delinque rispetto a chi denuncia?

Vien da chiedersi, non senza un certo sgomento: se il cittadino sceglie lo Stato, questo Stato, ovvero questi delegati, si faranno trovare?

Perché se Daniele, e altri come lui, hanno continuato a condurre una vita improntata alla legalità, ma colma di un’altra serie imprevedibile di problemi (economici, burocratici e sociali), lo Stato non li difende né li supporta?